Sin dalla prima legge di emancipazione, varata in Francia nel settembre del 1791, le libertà conquistate dagli ebrei, insieme al mancato abbandono dei loro costumi “perversi”, vennero lette come un attentato all’unità dei cristiani. La loro inemendabile “diversità” si era però posta come problema assai serio per le autorità spagnole già nel 1492. Infatti, occorreva impedire che i giudei convertiti e i loro discendenti potessero accedere a uffici importanti o entrare addirittura nell’Inquisizione. Nel corso dei decenni successivi furono pertanto promulgati gli statuti di “limpieza de sangre” (purezza del sangue), che censivano gli ebrei sulla base dei loro progenitori o di caratteri biologici immodificabili. Teologi e giuristi come Escobar del Corro e Marquando de Susannis li avevano definiti una “generatio” connotata da “pravorum morum”, nella quale la “macula” del deicidio si sarebbe trasmessa da padre in figlio attraverso le “qualitates sanguinis” (Adriano Prosperi, “Tra natura e cultura. Dall’intolleranza religiosa alla discriminazione per sangue”, ESI, 1992).
Nel 1933, quando Hitler salì al potere in Germania, il filologo austriaco Leo Spitzer ricondusse l’etimologia della parola “razza” proprio al lemma “generatio” utilizzato negli statuti spagnoli. Tesi poi confutata da Gianfranco Contini, il quale dimostrò in un articolo pubblicato nel 1959 che l’origine era tutt’altra. Secondo l’illustre accademico della Crusca, il termine “razza” era infatti una corruzione medievale dell’antico termine francese “haraz”, che indicava un allevamento di cavalli, una mandria, un branco. Forse il più simbolico dei vocaboli in nome del quale si era prodotta l’abiezione della ragione, sostituita la sua derivazione dal latino da una di natura zoologica, veniva così declassato da nobile segno di eccellenza (per i nazisti) a specifico attestato di bestialità. In ogni caso, il senso di qualsiasi distinzione tra intolleranza per fede e quella per razza si era perduto già prima che il conte Joseph Arthur de Gobineau, nel 1854, lo teorizzasse con tracotanza: “Tutti i popoli conservano immutevolmente carattere e idee: gli ebrei, i guebri [persiani], i copti e in qualche modo anche gli armeni; razze che lo stesso sistema connota con il marchio dell’avidità e della bassezza” (“Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane”, Rizzoli, 1998).
L’ostilità verso gli ebrei nell’Europa del tardo Ottocento non fu quindi semplicemente l’espressione di un odio razziale, quanto di una atavica diffidenza nei confronti di cittadini ora eguali agli altri, ma che continuavano ad agire contro gli altri nel sottosuolo della nazione, e “che già avevano minacciato la cristianità nel passato, nelle epoche in cui essi avevano esercitato le funzioni di esattori fiscali per conto del sovrano e di prestatori di capitali alle monarchie” (Michele Battini, “Il socialismo degli imbecilli”, Bollati Boringhieri, 2010). Per altro verso, la presunzione di essere un popolo eletto rappresentava la prova definitiva di un’estraneità insuperabile. E quest’ultima alimentava, a sua volta, il sospetto di una cospirazione che puntava a impadronirsi del potere economico mondiale. Una cospirazione, svelata dai “Protocolli dei savi anziani di Sion” (1905), responsabile delle crisi cicliche, dei crolli delle Borse e dei fallimenti bancari. La documentazione del presunto incontro segreto che si sarebbe tenuto durante il primo congresso sionista di Basilea nel 1897 era falsa, ma era anche l’indizio evidente di un altro complotto, questo invece vero. Il complotto del più aggressivo antisemitismo che, sull’ossessione per un immaginario imperialismo finanziario ebraico, aveva proiettato i propri disegni egemonici e di dominio del Vecchio continente.
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