Mi sia consentito un ricordo personale. Nel 1982 ero il responsabile dell’Ufficio internazionale della Cgil. Dopo l’invasione israeliana del Libano,una parte dei vertici della confederazione maggioritaria rischiò di perdere la bussola, facendo confusione tra Menachem Begin e Mosè. Si indebolirono così le difese contro l’antisemitismo strisciante di alcune sedicenti avanguardie della classe operaia, sovversive e massimaliste, presenti nel movimento sindacale italiano. Furono alcuni loro militanti a depositare una bara davanti alla Sinagoga di Roma, scandendo slogan forcaioli e razzisti.
Era il 25 giugno 1982, in cui era stato indetto uno sciopero generale per il lavoro e il Mezzogiorno. Un corteo immenso stava attraversando il Lungotevere, e pochi si accorsero di quell’atto ignobile. Ma, fatto ancora più grave, chi se ne accorse non reagì. Molti dirigenti sindacali sottovalutarono la gravità dell’episodio. E la stessa lettera con cui Luciano Lama replicò alla condanna del rabbino Elio Toaff, alla cui stesura contribuì chi scrive, conteneva dei passaggi discutibili. La verità è che allora molti di noi erano vicini solo alle sofferenze del popolo palestinese e molto lontani dalle ragioni di Israele.
Per fortuna Lama, oltre a essere uno straordinario leader sindacale, era un uomo retto e comprese che era necessario stroncare sul nascere l’antisemitismo latente in diverse realtà del mondo del lavoro. Avviò immediatamente, quindi, una battaglia politica e culturale contro ogni fenomeno di ostilità antigiudaica. Ad esempio, nell’aprile del 1983 la Camera del lavoro milanese organizzò un importante incontro con la comunità ebraica della capitale lombarda- il primo (credo) nella storia del sindacalismo confederale italiano- per discutere sulle radici, in particolare economiche e sociali, di quello che il dirigente della socialemocrazia tedesca August Bebel novant’anni prima aveva definito il “socialismo degli imbecilli” (Congresso Spd di Colonia, 1893).
Infatti, lo sgomento suscitato dal massacro di Sabra e Shatila del 18 settembre 1982 aveva riesumato gli stereotipi antisemiti più antichi. Non si trattava certo di una novità: il paragone fra gli israeliani e i nazisti, i richiami al Dio cattivo di Israele, la sovrapposizione fra i termini israeliano, ebreo e sionista, erano comparsi già negli anni Cinquanta. E anche allora scattò puntualmente l’ignobile equivalenza tra il genocidio nazista degli ebrei e la repressione israeliana dei palestinesi. Si trattava di una smaccata distorsione della verità storica, che non sempre veniva contrastata con la necessaria decisione. Del resto, il pregiudizio antigiudaico affonda le sue radici in una millenaria tradizione.
Mi riferisco, anzitutto, a quel negazionismo secondo cui gli ebrei, le “false vittime” di ieri di un genocidio “inesistente”, sono i veri persecutori di oggi. E oggi (come ieri), secondo i suoi teorici lo stato d’Israele è un’impostura, l’abusivo destinatario di una solidarietà deviata. La sua nascita e la sua esistenza si avvalgono quindi di un’indebita patente di legittimità morale, sono soltanto il frutto della cattiva coscienza dell’occidente. In questo delirio della ragione la Shoah diventa un “mito”, il sionismo l’avatar del complotto giudaico, il governo di Tel Aviv la sua intelligenza e il suo avamposto militare. Tesi aberranti tornate in grande spolvero dopo il 7 ottobre, complici anche quei cattivi maestri che insegnano alla gioventù odierna l’arte di ignorare la storia
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Le uniche cose che cambiano sono: l’età anagrafica di chi può dare vera testimonianza e le figure politiche sul proscenio mondiale. Ciò che non cambia è che oggi come ieri è palese la volontà a veicolare l’odio etnico (contro il popolo di Israele) e religioso (contro gli ebrei). Poco importa se per opportunismo politico, semplice convenienza o per ignoranza.