di Massimo Teodori
A cinque anni dalla scomparsa di Massimo Bordin molto è stato scritto del prestigio del giornalista, della sua conoscenza del mondo giudiziario, e delle raffinate decodificazioni politiche di cui era maestro. Ma poco è stato raccontato della sua esperienza radicale incentrata nel rapporto con Marco Pannella che per quaranta anni è stato generosamente rifornito di informazioni e suggerimenti.
So bene che attribuire pensieri e parole a chi non c’è più può distorcere anche l’attendibilità del vissuto in armonia con la persona di cui si scrive. La mia lunga amicizia con Massimo, tuttavia, mi aiuta a richiamare alla memoria le idee che ci siamo scambiati nelle ore fertili trascorse insieme. Impareggiabile collaboratore negli anni ’80 nelle relazioni di minoranze per le inchieste Sindona e P2, interlocutore indispensabile per libri fino alla pubblicazione a doppia firma di Complotto! che siglava la nostra diffidenza verso le usuali interpretazioni di alcuni importanti capitoli del dopoguerra, Massimo è stato fino alla fine dei suoi giorni anche il compagno delle discussioni estive nella casa di campagna che ha lungamente frequentato.
Vorrei subito ricordare come Massimo sia stato tra i pochi radicali rimasti estranei alle piaggerie che tanti giovani e meno giovani indirizzavano a Marco Pannella in attesa delle ricompense previste per chi era disponibile a diffondere il catechismo del capo. Marco, fin da quando a metà degli anni ’70 incontrò Massimo ne riconobbe la tempra intellettuale per cui se ne servì per ricavarne attendibili informazioni politiche e giudiziarie, salvo poi distorcerle a suo uso e consumo. E quando Massimo non riuscì più a sopportare gli ordini stralunati che arrivavano a Radio radicale e decise di lasciare la direzione, gli fu consentito di continuare a condurre la “sua” rassegna stampa solo a condizione che accettasse di fare da spalla a un dialogo domenicale con il leader che ben pretesto divenne una sorta di avanspettacolo futurista interrotto dai brontolii di dissenso a voce roca con cui il nostro prendeva le distanze.
Massimo era una persona sommamente rigorosa che detestava l’approssimazione come scrissi in un breve ricordo sul “Corriere della sera”: “Il pensiero va a George Orwell che mi appare a lui collegato dal filo rosso del comune orientamento ideale, dell’impegno per la verità e del rifiuto d’ogni dogmatismo… Bordin, pur rimanendo ancorato alle speranze radicali della sinistra, era approdato all’occidentalismo delle libertà libertarie, dello Stato di diritto, della giustizia giusta e dell’umanesimo socialista”. La rassegna stampa divenne ben presto il livre de chevet di giornalisti e politici interessati a capire quel che davvero accadeva in Italia. Bordin era un radicale singolare divenuto beniamino di centinaia di migliaia di ascoltatori molti dei quali si accalcarono nelle strade adiacenti la sala valdese di Roma quando ci incontrammo per l’ultimo saluto alla voce di Radio radicale.
Con un rito eccezionale lo scomparso fu subito commemorato al Senato e alla Camera. Eppure Massimo non si era mai seduto su quelle poltrone: con un’ostinazione difficile da comprendere Pannella che aveva portato sugli scranni di Montecitorio tante persone a dir poco irrilevanti, mai aveva voluto che il radicale politicamente più intelligente fosse eletto in parlamento. Bordin sarebbe stato una punta preziosa a Montecitorio, e forse proprio per le sue doti speciali fu tenuto fuori nonostante che la qualità dei suoi contributi fosse largamente apprezzata.
Massimo non soffrì del ruolo subordinato che Pannella voleva cucirgli addosso e con ironia sempre tacque e sorrise: la sua caratura di intellettuale autonomo non aveva bisogno di conferme gerarchiche. Con autentico spirito radicale si teneva distante da ogni declinazione pannelliana: la sua cultura aveva poco a che fare con i luoghi comuni che venivano esaltati nei ranghi di partito. A me più volte aveva obiettato che ero un illuso nel ritenere che Pannella volesse essere un grande leader di una grande forza liberaldemocratica, liberalsocialista e radicaldemocratica che non era mai esistita nell’Italia del dopoguerra.
Massimo era convinto che Marco fosse segnato da un egocentrismo che puntava tutto sulla testimonianza personale nutrita dal piacere esistenziale della sofferenza da digiuno volta a rendere invincibile il suo rapporto con il prossimo, una vocazione diversa da quella necessaria a un leader politico in grado di offrire al Paese quella prospettiva generale che pure era stata sfiorata con il divorzio e i diritti civili. Sulla mia illusione circa la leadership pannelliana adatta a una grande forze alternativa a clericali e populisti Massimo aveva ragione. Con la trovata fasulla del partito transpartito transnazionale, una vera bolla di sapone, riuscì al grande digiunatore l’operazione di fare fuori una piccola forza che aveva giocato un grande ruolo in nome dello Stato di diritto e che avrebbe potuto contrastare, se avesse voluto, la sciagura di Tangentopoli e Mani pulite.
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