di Andrea Bitetto
Se per Hegel “la preghiera del mattino dell’uomo moderno è la lettura del giornale”, di questo rituale Massimo Bordin è stato autentico sacerdote.
Fino alla fine, oramai 5 anni fa, Massimo Bordin ha officiato la quotidiana lettura dei giornali curando Stampa & Regime, la rassegna stampa di Radio Radicale, preannunziato dalle severe note del Requiem, come a voler render la celebrazione ancora più solenne.
Ed ecco fornirci sempre un filo di lettura degli articoli, degli editoriali, interpolati dai suoi silenzi, dai suoi sospiri, le boccate di fumo, anticipatori dei suoi caustici commenti, come quando, disarmato, si limitava a dire “come si dice a Pasqua: auguri!”.
Bordin era, come gli uomini di talento vero, imprevedibile: la sua Stampa & Regime, rassegna già di per sé stessa lunga, poteva sforare il palinsesto e nemmeno te ne accorgevi perché ti accompagnava fino alla fine guidandoti soprattutto tra i non detti della stampa e, soprattutto, dipanando la matassa di una politica che, per qualità, negli anni non era certo all’altezza di questo grandissimo osservatore e commentatore.
Sapeva, da gran conoscitore dell’informazione in generale e della stampa in particolare, che probabilmente non aveva tutti i torti Balzac quando affermava che “ogni giornale […] una bottega dove si vendono al pubblico le parole del colore che vuole. Se esistesse un giornale dei gobbi, dimostrerebbe sera e mattina la bellezza, la bontà, la necessità dei gobbi. Un giornale non cerca di chiarire, ma solo di lusingare le opinioni”.
Ed era per grattare sotto la crosta delle insegne di queste botteghe che la sua Stampa & Regime era il temperino migliore, il più affilato, il più preciso.
Ma l’impegno di Bordin non si esauriva, ovviamente, nella lettura dei quotidiani, ma si esprimeva anche nella presentazione dei processi trasmessi sempre da Radio Radicale e dalla cura di altre preziose rubriche in cui erano i duetti il pezzo del suo repertorio.
Ci voleva l’indole di un troskista, perché Bordin era stato in gioventù troskista, per educare alla civiltà del garantismo, alla cura del vero cronista giudiziario, quello che i processi li segue ascoltando le udienze dei dibattimenti e leggendo gli atti, anziché limitarsi a ripetere a pappagallo gli esiti delle conferenze stampa delle procure e della polizia giudiziaria ed elevare al rango di prove brandelli di indagine fatti magari uscire solo per suggestionare un’opinione pubblica che a Manzoni ha sempre preferito il giudice Lynch, quello dei linciaggi.
Dopotutto, quella tradizione troskista era stata avvezza ai processi farsa di regime da consentire a lui di capire subito quali fossero le farse dei processi mediatici, le bufale come quello sulla trattativa stato-mafia, sulla quale tra l’altro scrisse pagine perfette nel volume “Complotto” scritto dall’amico di una vita Massimo Teodori.
Che poi il richiamo al troskismo era mero vezzo per un uomo come Bordin che era liberale nel senso proprio e profondo del termine: per dirla con Guido Calogero di quei liberali che sono tali perché sanno esserlo prima di tutto in famiglia e poi con il portiere del condominio. Ed infatti, Bordin mai mancava di rispetto al proprio interlocutore, ancor di più se era un interlocutore lontano dalle sue idee: pronto a metterlo alle strette evidenziandone le contraddizioni ma con uno stile ed un rispetto oramai quasi perduti in un panorama che al giornalista cane da guardia contro il potere preferisce di norma l’alternativa secca tra il maggiordomo ed il capoclaque.
Lettore vorace, coltissimo, come il Funes di Borges pareva non dimenticare nulla ed era pronto ad estrarre dalla sua formidabile memoria una citazione, un fatto remotissimo ma rilevantissimo per comprendere le ragioni del contemporaneo.
Era stato cronista giudiziario ai tempi del processo Tortora: alle cronache che descrivevano, su carta, il pentito Pandico come “il computer della mafia” quasi a farne risaltare la pretesa affidabilità di un calunniatore, opponeva i fatti, quelli veri, quelli che nei processi ci sono (o non ci sono quando dovrebbero esser buoni per l’accusa) che dimostravano le mille contraddizioni di questi modesti personaggi. Ai cronisti che si accontentavano del “Cancelliere scriva” come secoli prima i Dominicani che origliavano e trascrivevano le confessioni, Bordin opponeva il lavoro di ricerca, di lettura, di comprensione di chi la cronaca giudiziaria la faceva ascoltando i processi, frequentando le aule dei dibattimenti.
In questo modo, negli anni, Bordin ha insegnato, anzi: ha educato i suoi ascoltatori a praticare la fatica del capire, del conoscere per deliberare – motto einaudiano di Radio Radicale.
La sua ultima battaglia, quella per il salvataggio della convenzione che consentiva a Radio Radicale di svolgere il proprio servizio pubblico contro gli Hyksos del Gerarca Minore Crimi – con appellativo coniato in modo semplicemente perfetto – era la battaglia per salvare quel patrimonio di educazione civile che aveva contribuito anche Bordin a costruire e a rendere non solo rispettato ma autorevole.
La radio era il perfetto pendant della carta stampata: erano entrambe parte del suo mondo credendo profondamente nella libertà di stampa, sapendo che questa libertà, per essere effettiva, deve essere esemplare e credibile: voleva evitare che quei luoghi divenissero “bordelli del pensiero” di balzachiana memoria.
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