-Lei crede che la televisione abbia abbassato il livello culturale del pubblico?
-No, credo che abbia abbassato il livello culturale degli intellettuali
(Ennio Flaiano, La solitudine del satiro).
Ospite martedì scorso a Otto e mezzo , il professore emerito Luciano Canfora ci ha spiegato il significato dell’espressione “neonazista nell’animo”, che gli è costata una querela di Giorgia Meloni per diffamazione aggravata. Secondo l’illustre filologo quell’espressione, pronunciata due anni fa nel corso di un incontro con gli studenti di un liceo scientifico di Bari, viene da Lucrezio e da un grande pensatore liberale, Tocqueville, il quale in una pagina autobiografica definisce “il fondo dell’anima” il suo sentimento di forte avversione verso la democrazia. E ha ricordato al volgo ignorante che si tratta di una metafora colta che i letterati di varie epoche, a cominciare da Lucrezio, hanno usato per parlare delle proprie passioni più recondite, quelle che “Freud chiamerebbe Es”. Ha quindi concluso: “Naturalmente ognuno di noi ha un punto di partenza remoto, culturale, storico, biografico. Quindi, io non drammatizzerei come qualcuno fa questa espressione, che fa parte di un modo letterario di esprimere in sintesi e in un inciso un discorso che ha un molto più ampio svolgimento, un dettaglio che oserei collocare nel campo dell’analisi del profondo”. Poscritto: se l’intenzione del professore era quella di sdrammatizzare l’espressione, essa viene tradita proprio dalla sua dotta disquisizione, secondo cui -a ben vedere- la premier sarebbe una neonazista a sua insaputa o suo malgrado, prigioniera di quel serbatoio di emozioni, sentimenti, impulsi e ricordi che il padre della psicoanalisi chiamava inconscio.
Per la cronaca, la frase incriminata recita per intero: “Anche la terribilissima e sempre insultata leader di Fratelli d’Italia, trattata di solito come una mentecatta, pericolosissima, siccome essendo neonazista nell’animo si è subito schierata con i neonazisti ucraini è diventata una statista molto importante ed è tutta contenta di questo ruolo”. Laddove, insieme alle dichiarate ascendenze di Lucrezio, Tocqueville e Freud, si può cogliere qualche traccia sotterranea di quel “dirty realism” (“realismo sporco”) che, con il suo linguaggio crudo e insolente, è la cifra stilistica, ad esempio, di Charles Bukowski.
Un mio amico mi ha chiesto come reagirebbe l’eminente antichista se qualcuno lo definisse “neostalinista nell’animo”, e per questo schierato con i massacratori degli ucraini. Gli ho risposto che certo non lo avrebbe querelato, e forse ne sarebbe stato persino lusingato, considerate le sue mai nascoste simpatie per Iosif Vissarionovič Džugašvili. Infatti, come è noto, anche Stalin “ha fatto cose buone” ed era un inflessibile paladino della libertà di pensiero. Niente di nuovo sotto il sole.
Da che mondo è mondo, anche la cultura più vasta e raffinata può essere adoperata per confondere le idee e raggirare la verità con la menzogna, in un tripudio di istrionico narcisismo.
Concludo. Da noi ci sono intellettuali talmente di sinistra per i quali la sinistra che c’è non è mai la “loro”sinistra. Hanno speso una vita a demolire il craxismo, il berlusconismo, il prodismo, il renzismo. Sempre dalla parte degli oppressi, hanno scritto libri trasudanti indignazione contro l’eterna vocazione autoritaria, compromissoria, subalterna, trasformistica, premoderna, delle italiche classi dirigenti. La domenica predicavano nuovi modelli di sviluppo, naturalmente alternativi a un capitalismo cieco e disumano. Nei giorni feriali ci spiegavano che tra democrazia e mercato esiste una contraddizione insanabile. Negli anni bisestili era il turno delle grandi utopie: dalla liberazione dal lavoro alla kantiana pace perpetua.
Poco prima della sua morte, Eric Hobsbawm osservava con una punta di nostalgia che l’epoca in cui gli intellettuali erano il principale volto pubblico di un onesto pensiero critico apparteneva ormai al passato, un passato spazzato via dai social media e dai salotti del piccolo schermo. Lo storico britannico del “secolo breve” descriveva così il declino di una delle figure centrali del Novecento, fosse al servizio delle élite dominanti, organico a un partito, un cane sciolto. Ma l’intellettuale è sempre stata una bestia strana. Qual è infatti il suo mestiere? Secondo Luciano Bianciardi, insofferente a ogni establishment culturale, era indefinibile. Per l’autore della “Vita agra” il vero intellettuale, in fondo, è -o dovrebbe essere- schiavo di tutti e servo di nessuno.
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Perché mi viene in mente Davigo?
Magistrale
Ok, noi siamo affetti da questi nostri inguaribili bias nei confronti degli attuali eredi del pensiero marxista, anticapitalista e quindi antioccidentale.
Per contro non vogliamo arruolare tra i “nostri”, pensatori raffinati come Michele, no.
Ma appunto, al netto dei nostri bias, come si può non condividere un’analisi così ficcante, fredda, razionale come questa?
Scritta, come al solito, in modo mirabile.
C’è una logica, le cose tornano, ad ogni passo, se ci pensi un attimo, Michele ci azzecca.
Per fortuna che Michele c’è.